QUEI MAZZI DI FIORI PER LA MADONNA DEL PARTO

«Solenne come figlia di re sotto quel padiglione soppannato di ermellini, essa è tuttavia rustica come una giovane montanina che venga sulla porta della carbonaia»
(da Roberto Longhi, Piero della Francesca, Abscondita, p.84)

«Quando sono tornato a Monterchi ho scoperto che l’affresco era stato staccato dal muro della cappella posta all’ingresso del vecchio cimitero e rimontato su un muro della scuola del paese. La costruzione sfoggia un’architettura di stile fascista degli anni 1932-1933 e la Madonna di Piero è stata messa sotto vetro, incorniciata e illuminata in modo tale da sembrare ormai una diapositiva proiettata sullo schermo. Non è più possibile distinguere la natura di pittura a fresco, e neanche capire se si tratta dell’opera originale o di una riproduzione. Quanto ai vasti spazi ormai dismessi, sale e aule, sono stati trasformati in “shops”, come sta scritto, negozi di souvenir e “prodotti derivati”. Le masse dei turisti che si riversano dai pullman ogni estate hanno sostituito le processioni delle fanciulle vicine a partorire»
(da Jean Clair, L’inverno della cultura, Skira, p.87)

C’è un che di ipnotico in quel «viso da mustela» (Longhi), in quell’irreale apertura simmetricissima della tenda. C’è una quantità di pensiero che atterrisce chi ha la tendenza a guardare opere d’arte più con la pancia che con la testa. Uscendo dalla vecchia scuola elementare di Monterchi è quasi obbligatorio domandarsi se aveva ragione Berenson quando scriveva: «Oso dunque affermare che nei suoi momenti quasi universalmente reputati supremi, l’arte è sempre stata ineloquente come in Piero della Francesca, sempre, come in lui, muta e gloriosa».

***

Come scrive Jean Clair, l’allestimento della Madonna del parto è la quintessenza della musealizzazione. Qui mai come altrove si sente la violenza dello “strappo” dell’affresco. La teca climatizzata è pulita e ortogonale, opera di un Donald Judd della Valtiberina, e sembra fare eco alle splendide geometrie di Pietro. Eppure, allo stesso modo miracoloso in cui dentro il rigoroso padiglione di ermellini appare quasi ruspante la bellezza della “giovane montanina”, anche nella scuola di Monterchi va in scena qualcosa di assolutamente sorprendente. Lì, nella penombra della saletta, appoggiati con grazia si trovano una serie di mazzi di fiori omaggio devoto delle giovani donne incinte dei paesi vicini. Neanche la musealizzazione più selvaggia è riuscita a disinnescare l’affezione popolare a questa immagine senza tempo.

Nella foto qui sotto si intravvedono i fiori.

LA BATTAGLIA DEGLI EROI DI MARC QUINN

Sabato sono stato con gli amici dell’Associazione Testori a Venezia. Alla mattina abbiamo visto la mostra di Manet spiegata da Robe da Chiodi che, personalmente, mi ha aperto la testa come una cozza. A pomeriggio, invece, è toccato a me spiegare la mostra di Marc Quinn alla Fondazione Cini sull’isola di San Giorgio. È stata l’occasione per mettere a fuoco l’opera di uno degli artisti più interessanti degli ultimi anni.

La mostra è molto bella. Straordinaria la serie Evolution che si affaccia sulla laguna (ci tornerò in un altro post). Ma vedere da San Marco la figura di Alison Lapper incinta svettare sulla laguna è qualcosa che sarà difficile da dimenticare. È la versione gonfiabile alta 11 metri realizzata per la cerimonia di inaugurazione delle Paraolimpiadi di Londra 2012. Quella di marmo l’avevo vista a Verona nel 2009.

Nel meraviglioso catalogo (davvero) realizzato da Skira c’è una lungo dialogo tra Germano Celant e Quinn. Ci sono moltissime cose interessanti. Ve ne segnalo una, proprio sul ritratto di Alison Lapper e la sua presenza sul Fouth Plint di Trafalgar Square.

Marc Quinn: Il marmo originale a Trafalgar Square… era in un luogo destinato agli eroi pubblici, persone che erano andati e avevano conquistato il mondo, ed erano inseriti dentro un contesto culturale. Erano celebrati: erano morti e uomini. Beh, lo erano tutti. Alison invece era viva, era una donna ed incinta e quindi è come diventata…

Germano Celant: Una metafora?

MC: Del futuro più che del passato. Un monumento al futuro.

GC: Anche l’accettazione della diversità fisica, intellettuale…

MC: Celebrava la diversità e anche un’eroicità di tipo diverso, una eroicità di qualcuno che conquista le proprie circostanze, più che di qualcuno che conquista il mondo esterno.

GC: La forza dell’interiorità

MC: È l’interiorità il luogo dove accade questa battaglia e non il mondo esterno. Ed era abbastanza interessante il fatto che a Trafalgar Square c’era già un’altro disabile. L’Ammiraglio Nelson aveva perso un braccio e un occhio, e se guardi la sua statua, non ha il braccio, ma nessuno aveva mai pensato a lui come a una persona disabile.

LUCI DELLA CITTÀ. LE MAQUETTES/LIGHTS DI NAOYA HATAKEYAMA

Altro acquisto mancato ad Art Basel. Le Maquettes/Lights di Naoya Hatakeyama. Questo è il classico caso in cui è pressoché impossibile riprodurre l’effetto della visione dal vivo di un’opera. Fatevi aiutare un po’ dalla fantasia, in questo caso può essere sufficiente.

Lo stesso Hatekeyama spiega così la genesi di queste immagini: «Ho fotografato l’illuminazione urbana della città. Quando guardavo la stampa sviluppata, sentivo che mancava qualcosa. Allora ho messo la stampa in una light box. L’intera stampa diventava grigia. Ho pensato: «Così non va». Ho stampato la stessa immagine su una pellicola trasparente e l’ho attaccata sul retro della stessa stampa. In questo modo venivano illuminate solo le parti dell’immagine in cui apparivano le fonti di luce . Certo, è ovvio che accadesse così, ma non avevo mai realizzato questo. Si tratta semplicemente di una tautologia del reale, in cui le caratteristiche della fotografia, di conversione e la metafora sono delegittimate. Ho pensato che non potevo non intitolarle “Maquette”, modelli».

L’effetto è sorprendente. Innanzitutto perché l’effetto non si nota. Cioè, al primo sguardo non ci si accorge di quello che sta accadendo: non si realizzata che si tratta di light box. Ci si stupisce soltanto dell’effetto realistico. I lampioni fotografati sembrano davvero produrre luce. Un trucco, una magia. Banale? Forse proprio per questo molto poetica.

Naoya Hatakeyama, “Maquettes/Light”, 2009

Naoya Hatakeyama, “Maquettes/Light”, 2009
Naoya Hatakeyama, “Maquettes/Light”, 2009

NAN GOLDIN E LA SUA SCOPOFILIA (DAL GRECO)

Nan Goldin, Chimera, 2013, Scopofilia
Nan Goldin, Chimera, 2013

Se non mi fossi dimenticato il portafoglio a casa, sarei uscito da Art Basel con queste due opere di Nan Goldin. Fanno parte di una serie di immagini intitolata Scopofilia (= amore per la visione) In mostra fino alla settimana prossima alla Matthew Marks Gallery di Los Angeles. È un lavoro commissionato alla grande fotografa americana dal Louvre. Qui il comunicato stampa che dice tutto. Qui altre immagini.

A me pare che la Goldin attraverso questa giustapposizione di opere storiche e proprie fotografie ci dia come un “libretto di istruzioni” per rileggere la sua opera precedente. A dispetto dei temi, lo sguardo di Nan è uno sguardo classico, pittorico. L’uso della luce e l’attenzione al corpo sono quelle della tradizione. Poi ci sono le botte, il sesso, la droga, l’alcool, il sesso (l’ho già detto), ma il modo di guardare – forse, ma qui sembra proprio essere così – è lo stesso.

Nan Goldin, Shroud, 2013, Scopofilia
Nan Goldin, Shroud, 2013

C’È MA NON SI VEDE. E RICHARD MOSSE LO FOTOGRAFA

Richard Mosse, The Enclave, Ireland Pavillion, Venice Biennale

Richard Mosse, The Enclave, Ireland Pavillion, Venice Biennale

Richard Mosse, The Enclave, Ireland Pavillion, Venice Biennale

Richard Mosse, The Enclave, Ireland Pavillion, Venice Biennale

Richard Mosse, The Enclave, Ireland Pavillion, Venice Biennale

Richard Mosse, The Enclave, Ireland Pavillion, Venice Biennale
Sarà difficile cancellare dalla memoria le immagini viste al padiglione dell’Irlanda. Il fotografo Richard Mosse ha portato un filmato realizzato nel Nord Kivu, nella Repubblica democratica del Congo. Qui, dal 1988 sono morte quattro milioni di persone in una guerra dimenticata. Nel suo tentativo di reinventare la fotografia di guerra, Mosse aveva iniziato nel 2009 a scattare immagini con la pellicola a infrarossi. Sul rullino si imprime lo spettro di luce non visibile all’occhio umano. Le foto mostrano, cioè, quel che c’è ma non si vede: una metafora non solo della guerra dimenticata, ma anche un tentativo di mostrare ciò che ci sfugge di quel che guardiamo. Le immagini, poi diventate anche un filmato, sono di una bellezza tragica: il verde della foresta rigogliosa diventa di un magenta-rosa profondissimo.

In questa intervista Mosse spiega bene quel che voleva fare.

CAMILLE HENROT SPIEGA (MOLTO BENE) LA BIENNALE DI GIONI

Camille Henrot, Grosse Fatigue, biennale venice venezia

Camille Henrot, Grosse Fatigue, biennale venice venezia

Camille Henrot, Grosse Fatigue, biennale venice venezia

In the begining there was nothing but shadow
Only darkness, and water and the great god Bumba
In the begining there were quantum fluxuations
In the begining the univers was a black egg
Wherever in earth was mixed together
In the begining there was an explosion
(Camille Henrot, da Grosse Fatigue, 2013)

Camille Henrot ha vinto il Leone d’argento come miglior giovane artista. Molto bello il suo video (un video anche lei, sì, i pittori per entrare nel padiglione di Gioni dovevano essere matti, morti o quasi morti – esagero?). Nel post precedente ho detto che la sua opera non è all’altezza di quella di Artur Żmijewski, ma questo non vuol dire che Grosse Fatigue non sia tra le cose più interessanti viste in Laguna quest’anno. Dal desktop del suo computer la Henrot comincia un viaggio di immagini e cortocircuiti coinvolgente. Il tema di partenza è l’inizio del mondo, la genesi di tutto, poi si approda ai tentativi di catalogazione di quel che la genesi ha prodotto.

È un’opera-simbolo di questa Biennale. Non a caso nel video qui sotto a un certo punto è lei a dare una delle definizioni più azzeccate del senso del Palazzo enciclopedico messo in piedi da Massimiliano Gioni:

«Penso che questa Biennale rispecchi perfettamente questo aspetto: la dimensione della follia, della saturazione e dell’eccesso, dove il problema non è più l’estetica, ma contenere tutto»

IL LEONE D’ORO SECONDO NONAME VA A ARTUR ŻMIJEWSKI

Il Leone d’Oro per il miglior artista della Biennale è andato a Tino Sehgal. Lui non vuole assolutamente che si riproducano in alcun modo le sue performance, ma io me ne sono fregato e ve ne offro dei frammenti.

Tino Sehgal, Biennale di Venezia, Venice Biennale
Tino Sehgal, Biennale di Venezia, Venice Biennale
Tino Sehgal, Biennale di Venezia, Venice Biennale

Tino Sehgal, Biennale di Venezia, Venice Biennale

Per quanto mi riguarda il premio l’avrei dato a Artur Żmijewski. Il suo video Blindly mi è parsa l’opera più bella di tutta la Biennale di Massimiliano Gioni. Meno divertente del video di Camille Henrot – giovane Leone d’argento – è vero, meno spettacolare, è vero, meno… Sì, ma molto più un sacco di altre cose. In pochi minuti Żmijewski riesce a portarci dove pochissimi artisti scelti da Gioni riescono a portarci. Il video mostra alcuni adulti ciechi a cui l’artista ha chiesto di dipingere il proprio ritratto e un paesaggio. Vengono mostrate le varie fasi del lavoro dei protagonisti e possiamo sentire la voce. L’artista stesso decide di comparire nel video, in un gesto di grande coinvolgimento umano. Sullo schermo appaiono uomini alle prese con una sfida vertiginosa. La loro umanità emerge con forza. Il mistero della visione appare in tutta la sua insondabile profondità. A un certo punto un uomo dice: «Devo dipingere il sole? Qui scelgo il pennello, le dita non vanno bene. Dicono che i raggi del sole sono fili sottili, le tracce delle dita sarebbero troppo spesse». La bellezza del video è anche formale. Quella mano impiastrata di colori che si vede verso la fine è una delle immagini indimenticabili di questa Biennale.

Artur Żmijewski, Blindly, Biennale Venezia Venice

Artur Żmijewski, Blindly, Biennale Venezia Venice

Artur Żmijewski, Blindly, Biennale Venezia Venice

Artur Żmijewski, Blindly, Biennale Venezia Venice

Artur Żmijewski, Blindly, Biennale Venezia Venice

Artur Żmijewski, Blindly, Biennale Venezia Venice

Artur Żmijewski, Blindly, Biennale Venezia Venice

Artur Żmijewski, Blindly, Biennale Venezia Venice

Artur Żmijewski, Blindly, Biennale Venezia Venice

Artur Żmijewski, Blindly, Biennale Venezia Venice

Artur Żmijewski, Blindly, Biennale Venezia Venice

Artur Żmijewski, Blindly, Biennale Venezia Venice
Artur Żmijewski, Blindly, Biennale Venezia Venice
Artur Żmijewski, Blindly, Biennale Venezia Venice

IL MIO INCUBO VENEZIANO AL PALAZZO DI GIONI (AI GIARDINI)

Un paio di giorni a Venezia per dare un’occhiata alla Biennale. Stanotte dormirò male. Farò certamente un incubo. NO NOME è in grado in anticiparlo e presentarvelo per immagini. Un po’ come faceva Gustav Jung nel suo Libro rosso.

Viviane Sassen (1972), Palazzo Enciclopedico, Biennale 2013
Viviane Sassen (1972)
José Antonio Suaéz Londoño (1955), Palazzo Enciclopedico, Biennale 2013
José Antonio Suaéz Londoño (1955)
Eva Kotátková (1982), Palazzo Enciclopedico, Biennale 2013
Eva Kotátková (1982)
Shinro Ohtake (1955), Palazzo Enciclopedico, Biennale 2013
Shinro Ohtake (1955)
Viviane Sassen (1972), Palazzo Enciclopedico, Biennale 2013
Viviane Sassen (1972)
Shinro Ohtake (1955), Palazzo Enciclopedico, Biennale 2013
Shinro Ohtake (1955)
Viviane Sassen (1972), Palazzo Enciclopedico, Biennale 2013
Viviane Sassen (1972)
Maria Lassnig (1919), Palazzo Enciclopedico, Biennale 2013
Maria Lassnig (1919)
Jean-Frédéric Schnyder (1945), Palazzo Enciclopedico, Biennale 2013
Jean-Frédéric Schnyder (1945)
Jean-Frédéric Schnyder (1945), Palazzo Enciclopedico, Biennale 2013
Jean-Frédéric Schnyder (1945)
Dominico Gnoli (1933-1970), Palazzo Enciclopedico, Biennale 2013
Dominico Gnoli (1933-1970)
Evgenij Kozlov (1955), Palazzo Enciclopedico, Biennale 2013
Evgenij Kozlov (1955)
Nokolay Bakharev (1946), Palazzo Enciclopedico, Biennale 2013
Nokolay Bakharev (1946)
Eva Kotátková (1982), Palazzo Enciclopedico, Biennale 2013
Eva Kotátková (1982)
Rudolf Steiner (1861-1925), Palazzo Enciclopedico, Biennale 2013
Rudolf Steiner (1861-1925)
Jean-Frédéric Schnyder (1945), Palazzo Enciclopedico, Biennale 2013
Jean-Frédéric Schnyder (1945)

Thierry De Cordier (1954), Palazzo Enciclopedico, Biennale 2013
Thierry De Cordier (1954)

A JEFF WALL MANCA IL COLPO DEL KO

Jeff Wall, Young man wet with rain (2011), Pac, Milano
Jeff Wall, Young man wet with rain (2011), 284x158 cm.

Capitò che quando i coniugi Becher andarono in pensione e lasciarono vacante la gloriosa cattedra di fotografia all’Accademia di Dusseldorf, venne chiamato a sostituirli Jeff Wall. L’avventura del fotografo canadese durò poco. Ci fu uno studente che alla prima occasione gli puntò contro una pistola carica. Non premette il grilletto, ma il gesto fu sufficiente per far capire a Jeff Wall che doveva cambiare aria. E si dimise.
Forse il gesto fu un po’ eccessivo, ma rese bene l’idea della distanza tra i mondi della Scuola di Dusseldorf e quello di Jeff Wall. Si tratta in entrambi i casi di fotografia al servizio dell’arte concettuale, o arte concettuale che si fa fotografia. Quel che fa la differenza, secondo me, è la dimensione della narrazione. Completamente assente nel magistero dei Becher e costitutiva nello stile di Wall.
Detto questo, sono andato con molta curiosità a vedere Actuality, la mostra di Jeff Wall al Pac di Milano e curata da Francesco Bonami. La cosa che si capisce dopo quaranta secondi passati in mostra è che nessun catalogo può restituire anche solo minimamente l’impatto delle immagini costruite da Wall. È un po’ come, si parva licet, pretendere di capire La zattera della Medusa senza trovarsi di fronte ai suoi sette metri di larghezza. Questo capita anche alle immagini non retroilluminate, come Young man wet with rain (2011) o Band & crowd (2011).

La perizia tecnica di Wall è davvero notevole. L’idea dei lightbox (praticata almeno dal 1975) è affascinante. La ricerca della composizione colta, fatta di geometrie e citazioni dalla storia dell’arte, è intrigante. Eppure, almeno nella mostra del Pac, Wall non è riuscito a mandarmi al tappeto. Ho l’impressione che le sue immagini siano in grado di rimetterti in moto la testa, ma non il cuore.

MATISSE IMMORTALATO IN BIANCO E NEROMATISSE IMMORTALIZED IN BLACK AND WHITE

A gennaio sono stato a New York e ho visto al Metropolitan Museum “Matisse – In search of true paintings”. Una mostra straordinaria, davvero. Jerry Saltz l’ha definita una mostra «inebriante, potenzialmente pericolosa». Le curatrici, Dorthe Aagesen e Rebecca Rabinow, hanno scelto di presentare Matisse come un pittore di ricerca, mai soddisfatto dei propri risultati.

Negli anni Trenta il pittore sceglie di far fotografare le fasi del proprio lavoro. Lydia Delectorskaya raccontava che il fotografo veniva chiamato «quando, alla fine di una sessione di lavoro, a Matisse sembrava di essere arrivato alla fine del lavoro o decideva di essere arrivato a uno stadio significativo».

Nel dicembre del 1945 decide di mostrare al pubblico il “dietro le quinte” del suo lavoro e, alla Galleria Maeght di Parigi, espone alcune sue opere accostate alle fotografie delle fasi del lavoro. Alcune di queste “istallazioni” sono riproposte nella mostra di New York.

In un’intervista proprio del 1945 Matisse spiegava: «Ho la mia idea in testa, e voglio realizzarla. Posso, molto spesso, riconcepirla. Ma so dove voglio andare a parare. Le foto scattate durante l’esecuzione dell’opera mi permettono di sapere se l’ultima esecuzione si avvicina di più a ciò che sto cercando più rispetto alle precedenti. Mi fa capire se sto avanzando o retrocedendo».

Prendiamo il caso de Il Sogno del 1940. Di questo quadro vengono scattate 14 immagini. La prima è del 7 gennaio, l’ultima del 19 settembre. Nove mesi di gestazione. È impressionate vedere quanto lavoro, quanto pensiero ci sia dietro un’immagine che, a prima vista, sembra la quintessenza della spontaneità. La mostra di New York dimostra che questo lavorìo, tecnico e di pensiero, era costitutivo del modus operandi di Matisse.

Henri Matisse, il Sogno, 1940
Henri Matisse, il Sogno, 1940

In January I was in New York and I saw at the Metropolitan Museum “Matisse – In search of true paintings”. A extraordinary exhibition, really. Jerry Saltz called it a show «intoxicating, potentially dangerous». The curators, Dorthe Aagesen and Rebecca Rabinow, have chosen to present Matisse as a painter of research, never satisfied with their results.

In the Thirties the painter chooses to photograph the stages of their work. Lydia Delectorskaya said that the photographer was called «when, at the end of a session, it seemed to Matisse he had arrived at a significant stage.»

In December 1945 he decided to show the public the “behind the scenes” of his work and, at the Maeght Gallery in Paris, he exhibited some of his works juxtaposed with photographs of the stages of labor. Some of these “installations” are repeated in the New York exhibition.

In an interview in 1945 just Matisse explained: «I have my conception in my head, and I want to realize it. I can, very often, reconceive it. But I know where I want to end up. The photos taken in the course of the execution of the work permit me to know if the last conception conforms more to what I am after than the preceding ones, whether I have advanced or regressed.»

Take the case of The Dream, 1940. Fourthteen photos are of this painting. The first is from January 7, the last of September 19. Nine months of gestation. It is impressive to see how much work, how much thought is behind an image that, at first glance, seems the quintessence of spontaneity. The exhibition in New York shows that this intense activity, technical and of thought it was constitutive of Matisse’s modus operandi.

Henri Matisse, il Sogno, 1940
Henri Matisse, il Sogno, 1940