CAPIRE MEGLIO GIOVANNI FRANGI. QUALCHE PENSIERO

 

Giovanni Frangi parla del suo sito internet da quando lo conosco, quindi almeno dal 1999, l’anno della mostra alle Stelline “Il richiamo della foresta”. Alla fine c’è riuscito e da settimana scorsa è online www.giovannifrangi.it. Verrebbe da chiedersi: ci voleva tanto?

Giovanni non è un pigro e non è neanche uno a cui mancano le idee. Semplicemente pensa molto prima di fare le cose e decide di farle quando pensa sia il momento giusto di farle. Insomma, non improvvisa mai. Il fatto che il sito appaia oggi deve avere un significato particolare per lui e ho il sospetto che abbia a che fare con la volontà di fare un punto su quanto fatto fino a oggi.

Non varrebbe la pena parlarne infatti se non fosse che quel che ne è uscito è uno strumento prezioso per capire il percorso di uno dei maggiori pittori italiani degli ultimi vent’anni. È l’unico a disposizione per ricostruirne l’opera dall’inizio alla fine, se si tiene conto che il catalogo della mostra “Straziante, meravigliosa bellezza del creato” a Villa Manin copre il periodo 2005-2011.

Quel che appare anche agli occhi del più distratto degli osservatori è che la pittura di Frangi è molto cambiata. La critica che gli viene mossa più spesso è di aver tradito lo stile muscolare, giocato tutto sul colore materico, che lo ha contraddistinto almeno fino al 1999. Io sono tra quelli che pensano che non si tratti di un tradimento, ma di un passo avanti. Gli anni che da “Il richiamo della foresta” portano a “Nobu at Elba” sono quelli di un effettiva accelerazione verso un’altra direzione. Più elegante, ma non meno muscolare.

È stato in quel periodo che ho sentito parlare Frangi di Filippo de Pisis e, guardando a quanto è successo, la riflessione su questo maestro non era soltanto un eccentrico interesse a cui si sottopone chi vuole andare per forza contro il mainstream. L’avvicinamento a De Pisis, mai citato esplicitamente e forse neanche implicitamente, avviene tramite l’introduzione delle carte. A un certo punto, all’attività a olio, Frangi affianca un lavoro sistematico attorno a un genere considerato minore. Può darsi che la scelta sia dovuta a esigenze commerciali (si vendono più facilmente), ma a me pare che sul piano stilistico dalle carte non si torni più indietro. La stesura del colore molto diluito viene applicata anche alle tele e il disegno si fa sempre più essenziale. L’ossessione figurativa si affievolisce  senza mai scomparire definitivamente. La scommessa è tutta sulla pittura, il campo su cui un pittore vince o perde. Il punto più alto, forse, è “Giardini pubblici” esposto al Mart nel 2010.

Il sito documenta anche un altro aspetto decisivo dell’opera di Frangi. Da “La fuga di Renzo” in poi, le mostre sono sempre concepite come dei progetti compiuti, con una propria coerenza, come se fossero racconti con una trama. L’allestimento diventa parte essenziale della comprensione del lavoro che, quasi sempre, deve esser letto come un’istallazione vera e propria. Il capolavoro, in questo senso, per ambizione e risultato, è certo “Nobu at Elba” del 2004, che speriamo di poter rivedere presto riallestito.

Per lungo tempo la figura umana non è comparsa nell’opera di Giovanni. Ricordo la figura di donna appesa nel salotto di di un amico o il ritratto sulla copertina dell’edizione  Garzanti di “In Exitu” di Giovanni Testori. Le persone riappaiono nei quadri in modo inaspettato ed eterodosso in occasione di “Straziante, meravigliosa bellezza del creato”. Sono fotografie scattate in riva al mare, in Marocco mi sembra, i cui ingrandimenti sono dipinti quasi a monocromo. Pescatori, famiglie al bagno. Un omaggio a Schifano, forse. Anzi, sicuramente. Certo è una soluzione che non risolve il problema sconfinato della pittura della figura umana. Dilemma che resta aperto dopo la morte di Bacon e Freud (Richter non ne fa una malattia e nemmeno Hockney ultimamente) e chissà se qualcuno avrà mai la forza di riaffrontarlo con risultati all’altezza. Di certo le ombre di Frangi fanno fatica a scomparire dalla memoria di chi le ha viste. Per non parlare degli Albatros: «stormi d’uccelli neri, com’esuli pensieri, nel vespero migrar».

Ho consigliato a Giovanni di segnalare nel sito i due testi più importanti che trattano della sua opera: quello di Giovanni Agosti “Giovanni Frangi alle prese con la natura” edito da Feltrinelli e il saggio di Massimo Recalcati per la mostra al Diocesano “La règle du jeu. Atto secondo. Dieci giardini” del 2011.

Se potessi tornare indietro nel tempo e scegliere una mostra che non sono riuscito a vedere, forse, sceglierei quella del 2009 a Trento “Giovanni in gennaio”.

Di seguito ho provato a riassumere in nove immagini la storia raccontata da www.giovannifrangi.it.

THOMAS BARROW: LA RABBIA E IL PAESAGGIOTHOMAS BARROW: ANGER AND LANDSCAPE

Mi è venuto in mente il NO di Mario Schifano. Guardando queste immagini pubblicate sull’ultimo numero di Aperture mi è parso di percepire lo stesso moto di rabbia. Forse meno selvaggio, ma ugualmente potente. Thomas Barrow è un artista che ha fatto della sperimentazione fotografica la sua cifra stilistica e nel bel mezzo degli anni Settanta realizza questa serie di foto intitolata Cancellations. Sono immagini in bianco e nero del paesaggio urbano americano, simili a quelle diventate celebri con la mostra del 1975 New Topographics: Photographs of Man-Altered Landscape. C’è un’unica differenza: l’immagine è sempre attraversata da una X ottenuta incidendo il negativo. Chi si ricorda che cos’è la fotografia tradizionale sa che tipo di violenza è nei confronti di un’immagine analogica un gesto del genere. Una cicatrice, uno sfregio ineliminabile. Un gesto apparentemente banale, quasi infantile. Eppure così carico di rabbia verso ciò che appare come un’ingiustizia. Tanto hanno riflettuto i fotografi americani su quell’aggettivo “man-altered” (penso a Robert Adams, Richard Misrach o Edward Burtynsky), eppure in loro ricerca della  “wilderness” perduta aveva la forma di un’amara nostalgia. Barrow invece si ribella: si avventa con foga distruttrice facendo scempio dello scempio. Giovanni Testori, forse l’avrebbe chiamata “rivolta”. Un modo per urlare: “NO”.

 

Thomas Barrow, DART, from the series Cancellations, 1974
DART, 1974
Thomas Barrow, Horizon Rib, from the series Cancellations, 1974
Horizon Rib, 1974
Thomas Barrow, Culver City, from the series Cancellations,1975
Culver City, 1975
Thomas Barrow, UCR (ellipse), from the series Cancellations, 1976
UCR (ellipse), 1976

I came up with NO by Mario Schifano. Looking at these pictures published in the current issue of Aperture I almost felt the same surge of anger.. Perhaps less wild, but equally powerful. Thomas Barrow is an artist who has worked extensively on photographic experimentation and, in the middle of the seventies, makes this series of photos entitled Cancellations. They are images of the American urban landscape in black and white, similar to those became famous in 1975 with the exhibition New Topographics: Photographs of Man-Altered Landscape. There is one difference: the image is always crossed by a X obtained by etching the negative. Who remembers what traditional photography is, knows what kind of violence is against analog image such a gesture. A scar, an ineliminable slash. Something as apparently trivial, almost childlike. Yet a gesture so full of anger at what appears to be an injustice. The American photographers have thought a lot about the adjective “man-altered” (I think of Robert Adams, Richard Misrach and Edward Burtynsky), yet in their quest for the lost “wilderness” was in the form of a bitter nostalgia. Barrow instead rebels: pounced eagerly making havoc of the havoc. Giovanni Testori, perhaps, would call “revolt”. A way to shout “NO”.

 

Thomas Barrow, DART, from the series Cancellations, 1974
DART, 1974
Thomas Barrow, Horizon Rib, from the series Cancellations, 1974
Horizon Rib, 1974
Thomas Barrow, Culver City, from the series Cancellations,1975
Culver City, 1975
Thomas Barrow, UCR (ellipse), from the series Cancellations, 1976
UCR (ellipse), 1976

AMMUTOLITI DAVANTI ALLA CHIMERA DI MARIO SCHIFANO

la Chimera - 1986
La Chimera, 1986 foto by Teocat

Quest’estate sotto l’ombrellone (si fa per dire) ho letto Mario Schifano – Una biografia di Luca Ronchi (Johan&Levi). Ne ha parlato da par suo Giovanni Frangi su ArtsLife. Io volevo proporvi qui uno di brani più belli del libro, quando l’ultima donna di Schifano, Monica de Bei, racconta della performance di Firenze dalla quale nacque La Chimera. Da questo racconto e dagli altri contenuti nel libro si capisce che all’inizio ci fu un gran casino (contestazioni, fischi, Renzo Colombo parla di lanci di monetine). Poi lo stupore. E il silenzio.

Monica de Bei – Nella primavera dell’85 fu chiamato dal regista Aldo Rostagno a inaugurare l’anno degli Etruschi a Firenze. Per l’evento aveva pensato di dipingere un grande quadro dal vivo, in pubblico in piazza dell’Annunciata, mentre Achille (Bonito Oliva, ndr) avrebbe commentato il work in progress come un cronista delle dirette televisive di ciclismo. Per gli amici facemmo stampare da Rinaldo Rossi una T-shirt con la scritta LIVE, come per un concerto! Aveva deciso di utilizzare l’immagine della Chimera di Arezzo, con il suo aspetto multiforme, rappresentante “il sommo dio etrusco, principio cangiante di ogni cosa”. Le dimensioni dell’opera erano fuori misura, quattro metri di altezza per dieci di lunghezza, composta da dieci tele due metri per due accostate l’una all’altra, quaranta metri quadri di pittura.

***

La piazza era piena all’inverosimile, gli organizzatori dicevano che c’erano circa seimila persone, una cosa che intimidiva.
Mario salì su un palco quasi a misura del quadro, i fari proiettavano una luce abbagliante, la gente lo sfiorava allungando le braccia per poterlo toccare. Cominciò nel brusio generale a fare il colore del fondo su quell’enorme distesa di tele bianche sdraiate. Gli assistenti gli passavano i secchi pieni di vernice, i minuti scorrevano e Mario sempre più veloce si muoveva da una parte all’altra distribuendo rapide pennellate, posizionando e contornando le sagome. I ragazzi non riuscivano a stargli dietro, Achille cominciò la sua cronaca ma dovette sopportare di tutto perché aveva dei detrattori tra il pubblico. Quando finalmente alzarono le tele per far colare lo smalto la gente ammutolì, i fischi cessarono. Ci fu un’esternazione di meraviglia.
Davanti ai nostri occhi aveva preso vita un paesaggio con la linea dell’orizzonte molto bassa. Dal terreno le sagome grondanti delle chimere partivano in volo verso il blu profondo del cielo, capovolgendosi e volteggiando nell’aria verso il bianco accecante della luce al lato opposto, a dissolversi come sogni al mattino.
Non si sentiva volare una mosca. Poi portarono un trabatello o come si chiama quella specie di piattaforma sopraelevata, Mario ci salì sopra per finire il lavoro e cominciò rapito a dipingere con due mani contemporaneamente. Sì, con due pennelli insieme: sembrava un direttore d’orchestra. Da sotto si fecero avanti li amici, gli assistenti, per aiutarlo, ma lui li cacciò via e seguitò nella sua sinfonia mentre uno schermo gigante mandava la sua immagine. Lo guardavo e pensavo che c’era riuscito, aveva realizzato un’opera emozionante come la sua esecuzione, uno spettacolo a cui tante volte avevo assistito da sola.

 

Di quella serata fu girato un video prodotto da Ettore Rosboch. Ma il filmato è andato perso. Restano le fotografie scattate da Marcello Gianvenuti pubblicate dall’editore Mastrogiacomo.

Mario Schifano, 1985 Firenze, Piazza dell’Annunziata (copyright Marcello Gianvenuti)
Mario Schifano, Piazza dell’Annunziata, Firenze, 1985 © Marcello Gianvenuti