TESTORI A RAVENNA, I QUADRI CHE MI SAREI PORTATO A CASA

Oggi con Giuseppe, Davide, Petra e Alessandro sono stato alla mostra “Miseria e splendore della carne. Testori e la grande pittura europea” curata da Claudio Spadoni per il Mar di Ravenna. Mi hanno detto che se voglio continuare a tenere questo blog devo parlar bene di questa mostra. Allora lo faccio (senza sforzo). La mostra è molto bella. Bello il primo piano (c’è un Fra Galgario il cui sguardo farebbe commuovere anche un toro), il secondo piano è il più debole (come fare a portare i grandi GéricaultCourbet, Giacometti?), il terzo è quello dei fuochi artificiali (soprattutto per la stanza di Morlotti, anche se la splendida sequenza degli adda alla mostra “Testori a Lecco”  resta forse insuperabile). L’ultima stanza è un vero e proprio coup de théâtre.

Di seguito vi segnalo i tre quadri che mi sarei portato a casa. Non c’è il Caravaggio, lo so. Ma per quello non avrei i soldi per l’assicurazione. Non c’è Giacometti, lo so. Non c’è Bacon, lo so. E neanche Tanzio, neanche Cairo, Fra Galgario, Ceruti… Ho scelto questi. Punto. Se ripasso per Ravenna ne scelgo altri tre.

Villy Varlin, Apocalisse (Ritratto di Giovanni Testori), 1972, olio su tela 265x501 cm.
Villy Varlin, Apocalisse (Ritratto di Giovanni Testori), 1972, olio su tela 265x501 cm.

La verità è che in questi enormi, dissenati e rovesciati teloni, il coito e l’assassinio son sempre lì, a un passo; a un passo il tranello che non dà scampo […]. Anche perché, capitanate dalla beccatrice, vi favoleggiano le diavolesse (bondasche e no); e vi danzano, abbracciati in una baraonda mai vista, una baraonda da giudizio universale sganasciato e finente poi nella più fallimentare e totale liquidazione che si conosca, loro (noi): quelli che si credono vivi; cioè a dire, le pisce dell’esistere; i fantasmi del gran ballo che è la vita; e del suo inevitabile abbattersi e risorgere nella perpetuazione del dolore e del niente.

Giovanni Testori, L’ironia, la cenere, il niente, in Giovanni Testori. Villy Varlin, catalogo della mostra: Milano, Rotonda della Besana, marzo-aprile 1976, Electa, Milano 1976, p. 20

Ennio Morlotti, Studi per bagnanti, 1988, olio su tela, 190 x 170 cm.
Ennio Morlotti, Studi per bagnanti, 1988, olio su tela, 190 x 170 cm.

Dir natura, insomma; ma’ non dirlo, contro la giungla della città, di strade, fabbriche e cose dov’è pure un ingorgo da penetrare e scoprire; riproporre un senso della terra talmente profondo e massiccio, da sopportar che da esso si partissero i voli fra gli astri e le avventure dell’uomo e dei suoi ordigni dentro il cosmo; rioffrir, insomma, ai viventi il senso di una terra che, malgrado tutto, continua a sostenere e alimentare la loro esistenza. Ecco qual fu e qual è al presente, il significato dell’opera di Morlotti.

Giovanni Testori, Ennio Morlotti. Nato a Lecco il 20.IX.1910, risiede a Milano, in VII Quadriennale Nazionale d’Arte di Roma, catalogo della mostra: Roma, Palazzo delle Esposizioni, dicembre 1959 – aprile 1960, De Luca, Roma, pp.78-79

Al contrario di Bacon, Fetting, il corpo dell’uomo, non può che adorarlo. Ma la sua adorazione non nasce da alcun modello già esistente di bellezza. Nasce dal violento attacco che bellezza e luce non cessano un solo istante di compiere in lui. Bellezza e luce fustigano Fetting; lo flagellano; lo martirizzano. Ma proprio perché accetta questo furibondo assalto, Fetting può sopportare in sé fustigazioni, flagellazioni e martirii e lasciare che il corpo cercato, inseguito, raggiunto e amato, il corpo che egli, prima e dopo averlo dipinto, ha stretto a sé o da cui s’è fatto stringere come per ricomporre, finalmente, e sia pure per un breve istante, una sola carne e l’unità dell’essere.

Giovanni Testori, Una luce suicida, in “Flash Art”, XIX, 132, aprile-maggio, pp.26-29

LUI È RISORTO E ANCHE IO MI SENTO MOLTO MEGLIO

Buona Pasqua a tutti. Visto come sono andate le cose – dico quel che è accaduto il primo giorno dopo il sabato – possiamo tornare più serenamente su questioni controverse riguardanti la Settimana Santa che si era aperta, quest’anno, con il fattaccio accaduto ad Avignone dove cosiddetti “fondamentalisti cattolici” hanno danneggiato a colpi di martello l’opera “Piss Christ” di Andres Serrano esposta alla Galerie Lambert. Il sospetto che la vicenda più che a valutazioni artistiche sia legata a strategie politiche in vista delle vicine elezioni è abbastanza fondato. Va detto, però, che Serrano deve a quest’opera, la fotografia di un crocifisso immerso nell’urina, parte della sua celebrità visto che già negli anni 80 le polemiche varcarono le porte del Congresso americano. Eppure il “Piss Christ” non mi pare neanche la sua opera più scandalosa e di cattivo gusto (a me, ad esempio, dà più fastidio l’immagine della suora che si masturba).

Andres Serrano, Piss Christ, Avignone, 2011

Detto questo ci sono tre osservazioni interessanti da fare riguardo a questa vicenda:

1) In un’intervista a Liberation Serrano risponde così al giornalista che gli chiede del significato del “Piss Christ”:

“The artists do not tell the meaning of their pictures. If the meaning is that obvious, it is not art any more, it becomes propaganda. The crucifix is simply a common object, that we take for granted. It is minimal. If my work draws attention and creates a debate, it is also a good way to remind people of the horrors the Christ went through”.

2) Tempo fa, a chi gli chiedeva come mai gli artisti contemporanei insistessero sull’uso di simboli cristiani per le loro opere non proprio da sacrestia, Damien Hirst rispondeva:

“Prendiamo quei simboli perché sono gli unici simboli che abbiamo”.

3) Nelle sue conversazioni con Luca Doninelli, Giovanni Testori a un certo punto afferma:

“Non voglio dire che l’artista moderno non abbia dimenticato Dio. C’è chi l’ha dimenticato, chi non l’ha dimenticato, chi si dice ateo, chi no. Quello che voglio dire è che l’artista moderno non è riuscito a togliersi dai piedi Gesù Cristo”.

NEGHER E RODODENDORO

Lugano, 2 giugno 2010
Lugano, 2 giugno 2010

«Totus est negher. Negher e rododendoro e porpora e mortadella marcita. El cielo rona. E a me, me pare de vedere in dappertutto brindelli de carna e de sangua; carna e sangua in della terra, carna e sangua in delle nìgore; carna e sangua in delle foreste, in dei pollari, in delle stalle; carna e sangua in delle cassìne e anca indidentro del lago; carna e sangua, marmelada, violame, confittura e macellaria che iscolano giù, ‘me fudesse che anche i muri, le cassìne, i làrezzi, i moròni e imperzìno le nìgore aressero le loro robe».
Giovanni Testori, Ambleto, 1972

MAURIZIO CATTELAN E GIOVANNI TESTORI

(Maurizio Cattelan, All, 2008)

Quanti, l’indomani, si affrettarono per primi ai treni, lo videro. Coperta di un lenzuol bianco, la barella su cui era stato deposto, attraversò infatti l’intera stazione. Alcuni chiesero e seppero. Altri andarono oltre. Tutti però al passaggio scorsero una sorta di luce che lentissimamente andava formandosi sopra il cadavere e pareva vincere il grigior delle volte e il buio di ciò che di là da esse risultava improprio definir alba, benché neppur possibile fosse ritener notte.

(Giovanni Testori, In Exitu, 1988)

Libero sempre non è il pensier liberamente espresso

“In un momento come il nostro in cui la parola è diventato il luogo dell’equivoco, il luogo della menzogna, il luogo del gioco, di questa svendita della parola stessa, beh, allora, è finita. E siccome io non sono ancora finito fin che si può, ogni possibilità di racconto non deve far altro che cercare, che ascoltare questo lacerto umano (ciò che resta dell’umano), entrarci dentro, perché non può stare fuori, mescolarsi con lui e pregarlo, supplicarlo attraverso tutto quello che è̀ possibile dalla preghiera all’abbraccio, all’insulto: tutto quello che è possibile per far in modo che questa umanità ripronunci la parola, perché io non credo che ci siano molte altre speranze e perchè il luogo e la ragione del raccontare oggi, come sempre ma oggi più che mai, è solo quella di difendere il diritto a parlare di chi non ha parola anche se gli viene concessa, gli vengono concesse tutte le parole, ma sono tutte parole prestabilite, tutte parole limate, tutte parole preparate. E’ una liberta di dire parole non libere. Forse ho già citato questo verso dell’Alfieri, del “Filippo”, ma mi piace citarlo qui, anche se nella sua fermezza di scultura. Ad un certo punto Perez, colui che difendeva la libertà degli oppressi, dei popoli oppressi da Filippo e la difendeva in questo processo intentato al figlio Carlo da Filippo dice: “Libero sempre non è il pensier liberamente espresso”. Non sempre libero è il pensiero liberamente espresso, non sempre libera è la parola liberamente espressa. Le parole che noi sentiamo, che leggiamo, sono quasi tutte parole che non partono da quella prima catena che è la sola che rende liberi, che è̀ la catena che ci lega a quel brandello umano, a quella realtà̀ umana, che siamo. Fuori da questa catena d’origine le parole non sono più libere, s’incatenano perchè́ sono uscite dalla sola catena che a loro appartiene, quella di restare, di partire, di generarsi all’interno dell’uomo e del rapporto tra uomini”.
Giovanni Testori

grazie a Riccardo per la segnalazione

Testori: “Questo quadro di Tanzio mi ha folgorato”. (Anche a me)

Ho per le mani il libro “Testori a Novara” realizzato dall’Associazione Testori in occasione della mostra “Da Gaudenzio a Pianca. Omaggio a Testori. Capolavori restaurati nel novarese” allestita nella chiesa di San Gaudenzio. A parte tutto il bene che si potrebbe dire di questo libro (belle le immagini, belle le schede, belle le introduzioni), segnalo uno strepitoso intervento inedito di Testori su questo quadro di Tanzio da Varallo: “La battaglia di Sennacherib”. È una delle cose più forti che mi sia capitato di leggere negli ultimi anni. “Il Giornale” ha avuto l’intelligenza di pubblicarla settimana scorsa qui (dove si può scaricare anche il pdf della pagina). Ecco il passo più geniale:

“Tanzio l’ha dipinta tra il 1627 e il 1629 per la Cappella dell’Angelo Custode ed è veramente tra commovente e atrocemente ironico che questo quadro – dove l’Angelo è un vindice, un vendicatore, è una specie di ribelle, che viene a portare la parola della giustizia e della rivolta – sia il quadro dominante di una cappella in cui l’Angelo è nominato custode. Credo che si può andare a fondo e dire che probabilmente l’unico modo per custodire la vita è di difenderla e di ribellarsi contro chi la vita cerca di diminuire”.

TESTORI: UN SITO E UNO SPETTACOLO

Visto che abbiamo cominciato a parlare di Giovanni Testori – non lo avevo ancora nominato su questo blog – continuiamo a farlo segnalando due cose. Una è per iper-specialisti: il nuovo sito archiviotestori.it. Si tratta del database di tutte le pubblicazioni di Testori, appunto. Libri, articoli, interviste. Se vi serve qualcosa cercate lì, poi per consultare andate all’Associazione Giovanni Testori (dove trovate il mio amico Ombra e dove potete vedere dal vivo il centro islamico di via Quaranta…).
La seconda cosa che segnalo va sotto la categoria “cose che mi piacerebbe vedere e che, probabilmente, non vedrò mai”. Si tratta della nuova versione dell’Erodiade di Testori, interpretata da Iaia Forte (per gli ignoranti come me è l’attrice di “Pane e Tulipani, per quelli che la sanno lunga è invece una delle più grandi attrici italiane). Qui il programma delle due prime rappresentazioni. Qui invece una grande – e rara – interpretazione della Forte di una poesia di Testori.